CASA
MICHELINI
Il
primo ricordo dei pomeriggi domenicali passati in casa Michelini risale
alla tarda primavera del 1953 o forse del 54.
Tenuto
per mano dai miei genitori percorrevo via Santo Stefano sino
all’antico palazzo adiacente a vicolo Posterla, in una città senza
traffico in cui si sentiva ancora lo sfrigolio del passaggio dei tram e
che ha ben poco in comune con quella odierna.
Si
entrava in un ampio androne poco illuminato, anche in quelle giornate di
sole primaverile.
Salivamo
uno scalone decorato con statue. Mi affascinava sempre quella di una
dama, in abito settecentesco, con uno specchio in mano. Era stata
ritratta e quasi congelata dall’anonimo scultore nell’atto di
rimirarsi l’elaborata acconciatura. Immaginavo che durante la notte
quelle statue, come fantasmi degli antichi proprietari, scendessero dai
loro piedistalli per rincorrersi lungo le scale ed i cortili.
Si
giungeva poi ad un ampio loggiato, dal quale si scorgevano i tetti di
un’ala del palazzo.
Svettava
su questi un gran camino, sormontato da una banderuola. Pareva l’elmo
di un antico cavaliere in armatura mentre cavalcava il tetto volgendo la
testa a seconda del vento. Mio padre mi faceva notare tutte le volte il
verso in cui la banderuola era girata per stabilire la direzione del
vento.
Entravamo
poi in un vasto pianerottolo con alcune porte. Non incontravamo mai
nessuno, quasi il palazzo fosse completamente disabitato.
Vicino
alla porta c’era un pomello d’ottone lucido, testimonianza
dell’antico comando di una campanella interna, sostituito da un
bottone dorato collegato ad un campanello elettrico, il cui squillo si
perdeva nei meandri dell’appartamento.
Un’anziana
cameriera, di nome Imelde, socchiudeva l’uscio e ci faceva entrare in
un grande ingresso. Spiccavano su un tavolo antichi lumi a petrolio,
ormai in disuso. A fianco di un attaccapanni vi era un vaso pieno di
bastoni da passeggio e di due curiose e vetuste racchette da sci. Erano
la testimonianza della passione del padrone di casa, all’epoca
scomparso da tempo, per la montagna ed i primordi degli sport alpini.
In
quel momento avvertivo un lontano brusio di voci, interrotto da
esclamazioni in puro dialetto bolognese.
Venivamo
accompagnati in una stanza stretta e lunga, dominata da un tavolo
ricoperto da un tappeto verde con intorno sei o sette persone. A capo
tavola sedeva un’anziana signora, la padrona di casa, amica di vecchia
data di mia nonna e della mia famiglia.
L’occasione
domenicale per ritrovarsi a casa della signora Ines Michelini, era la
partita a “bestia”.
Questo
è un antico un gioco di carte di tradizione bolognese che accomunava
appassionati fra tutti i ceti cittadini. Si ritrovavano in questi
appuntamenti festivi un gruppo di vecchie signore fra cui gli unici
giovani erano i miei genitori.
In
quei tempi, senza televisione, uno dei divertimenti per passare qualche
ora di svago era quello di trovarsi intorno ad un tavolo per una partita
a carte con un piccolo e calcolato rischio finanziario. Si puntavano
poche lire e tutto era dedicato più al piacere dell’incontro che
all’azzardo vero e proprio.
Esauriti
i convenevoli di rito generalmente seguivo la vecchia domestica Imelde
in cucina dove mi veniva dato un anticipo del rinfresco che sarebbe
stato servito a metà del pomeriggio. Osservavo
con curiosità i vecchi tegami di rame che ne decoravano le
pareti. Sul fuoco, sovente, vi era una
pentola in cui bollivano borbottando i fondi di caffé. La
brodaglia così ricavata era utilizzata per il caffelatte
della prima colazione mattutina. Così diceva Imelde.
Spiccava
al tavolo da gioco, in mezzo fra tutte le anziane signore presenti,
oltre a mio padre un unico personaggio maschile.
Mi
pareva vecchio ma, probabilmente, era solo di mezza età.
Sedeva
sempre alla sinistra della padrona di casa e faceva il lattaio. Era
invitato perché considerato un grande esperto del gioco. Forniva poi
una delle ghiotte materie prime del successivo rinfresco, la panna
fresca. Questa in cucina era trasformata in panna montata e servita a
complemento del dolce di pan di Spagna, allora consueta abitudine
domenicale bolognese o dell’altrettanto tradizionale torta di riso.
Talvolta
una delle vecchie amiche di mia nonna diceva, con marcato accento
modenese – Dio che bel giovane, che bel ragazzol!
– rivolta a mio padre, poi aggiungeva – Mo anche il figlio,
l’è un bel putin .
Stanco
di stare in cucina nella quale la vecchia domestica, religiosissima,
voleva farmi recitare le orazioni del vespro o addirittura che la
seguissi nel rosario, ritornavo a vedere il gioco che non capivo. Poi in
preda alla noia uscivo su un terrazzo, adiacente alla saletta, che
dominava i tetti di Bologna.
Mi
divertivo a sentire lo stridere delle rondini o a seguire i concerti di
campane che dalla vicina chiesa di Santo Stefano riempivano l’aria
primaverile.
Mi
giungevano improvvisi scoppi di risa o le esclamazioni del gioco – Mo
bein mo da bon che con delle belle carte in mano sono andata in
“bestia” - Andare in “bestia”, l’ho capito solo anni dopo,
voleva dire aver perso e dover mettere sul tavolo tutta la posta
accumulata sino a quel momento.
-
Perché non hai calato subito il tre dopo l’asso, così vincevi. –
Aggiungeva qualche altro giocatore.
Dottore,
Professore, Prete, Serva
del Prete, nessuno si addottora? –
Così
a voce alta declamava, in piedi e con tono balanzonesco, la signora
Bellei, anziana proprietaria di una rinomata cartoleria del centro
quando le toccava distribuire le carte. Non capivo poi cosa
c’entrassero col gioco professionisti, prelati o perpetue.
Scoprii
solo in seguito che con questi termini s’indicava la possibilità di
cambiare tutte le carte in mano.
Verso
la metà del pomeriggio faceva capolino da una porta laterale un’altra
domestica, di nome Francesca di ritorno dalle funzioni religiose del
vespro domenicale.
Il
suo ingresso segnava un momento di pausa in quanto da lì a poco
sarebbero stati serviti i dolci ed il vermouth che li accompagnava
Costei
poi si occupava di me, accompagnandomi nei meandri misteriosi e tutti da
scoprire della casa. La prima tappa erano i bagni: ne contai quattro
situati in vari punti del grande appartamento. Erano corredati da
lucenti manopole d’ottone e tubi a vista che li rendevano imponenti
come salotti. In fondo ad un lungo corridoio s’aprivano poi una serie
di granai, preceduti dalle stanze delle domestiche. Nel primo si trovava
un laboratorio di falegnameria, seguito da uno di chimica.
Rappresentavano la testimonianza delle passioni del padrone di casa, che
amava dilettarsi sia con il legno, sia con la fotografia.
Il
signor Michelini, fu, infatti, nei primi anni del 900 apprezzato
fotografo dilettante e sperimentatore delle prime tecniche di ripresa e
stampa fotografica.
Seguivano
poi altri granai pieni di botti per il vino e per l’aceto. In queste
soffitte regnava anche un grosso gatto soriano, tanto bello quanto
imprendibile.
Ho
tanto desiderato avvicinarlo, ma non voleva essere disturbato nel suo
regno.
Ritornati
nelle parti padronali m’incantavo in uno dei salotti, dove troneggiava
un pianoforte con a lato un antico samovar per il te. Erano tutti
ambienti poco illuminati con pesanti tende alle finestre ed
evidentemente non utilizzati da tempo.
Al
termine del giro mi ritrovavo in mezzo ai giocatori e vinto dalla noia
cominciavo a chieder alternativamente a
mio padre ed a mia madre quando ce ne saremmo andati.
Le
tecniche per tenermi buono erano varie. Quella che riusciva meglio era
di accompagnarmi sulla terrazza e farmi ascoltare le campane. Al termine
dello scampanio, affermava mio padre, avrei poi dovuto osservare una
lontana finestra. Nel momento in cui
fosse stato acceso il lampadario che a malapena si scorgeva
dietro ai vetri, quello sarebbe stato il segnale del ritorno a casa. Mi
sedevo allora per terra e con attenzione ascoltavo i vari concerti di
campane. Purtroppo finito uno, attaccava un altro campanile del centro
ed il concerto si protraeva a lungo. Cessate le campane, però, la
finestra indicata non s’illuminava mai.
Talvolta
stavo per chiamare, quando mi rendevo conto che si trattava di un raggio
di sole che si specchiava sul vetro. Finalmente al tramonto avvertivo
mio padre indicandogli la finestra: mi sembrava illuminata ma si
trattava sempre di un falso allarme.
Capisco
solo ora perché i miei genitori, in quegli anni magri di risorse e
divertimenti, aspettassero con impazienza la partita a “bestia”
domenicale. Era uno dei loro rari momenti di svago e passatempo e
coniugava inoltre il piacere di incontrarsi con persone se pur più
anziane ma legate da vecchi vincoli d’amicizia e simpatia.
Per
me, invece, esauriti i giri per casa, i piccoli giochi con cui le
vecchie domestiche cercavano di distrarmi, le attese sul terrazzo,
restava solo la noia.
Erano
domeniche d’altri tempi, di una Bologna che non c’é più, di un
mondo definitivamente scomparso, fatto di colori, odori e sapori che
restano ancorati ad un ricordo infantile di serena malinconia.
Sorrivoli
29/04/06
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