Bologna Musicale

Risalgono alla mia infanzia i primi contatti con il mondo musicale bolognese.                                        

Mia nonna, Elena Galassi Borsari, fu fra le prime signorine dell’alta borghesia a diplomarsi in violino, presso l’allora Civico Liceo Musicale,  nel lontano 1906. Rivivevo attraverso i suoi ricordi i momenti in cui il giovane Ottorino Respighi, prima di assurgere alla gloria come compositore “romano”, dirigeva l’orchestra degli allievi e con spirito petroniano diceva – Bein mo’ da bon ragazzol, Perchè sunè così mel. Attenti, mo alaura,  fasì attenzion a sbaglièr brisa, c’av dag di’cùcch in testa….!-

Oppure l’epica prova di Arturo Toscanini con l’orchestra del Liceo, formata da professori ed allievi (fra cui mia nonna nel primo leggio dei secondi violini), nel 1904 per il primo centenario dell’Istituto bolognese. In quella occasione accadde che il Maestro, per scaricare i fulmini di un temporale della sua proverbiale ira, si mise a battere con tale furia la bacchetta sul leggio fino a mandarla in frantumi. Il motivo della sfuriata, così mi raccontava, era che l’arpista Cleopatra Serato, professoressa del Liceo, pretendeva di controbattere un suo rilievo Un frammento della bacchetta finì così sulla testa di mia nonna.       

Toscanini placatosi di colpo, si profuse in scuse. La nonna allora gli chiese di poter conservare quel frammento come ricordo che ancora conservo fra le mie cose più care.

I primi incontri diretti però con la musica a Bologna furono i saggi scolastici del Conservatorio (il Liceo musicale della città, divenne Conservatorio statale nel 1942) ed i concerti al Teatro Comunale oppure quelli tenuti nella sala “Mozart” dell’Accademia Filarmonica.

I saggi del Conservatorio si svolgevano generalmente in primavera, nella severa Sala Bossi, già refettorio e sala capitolare dell’ex Convento degli Agostiniani che dal 1804, per volere di Napoleone, ospita la pubblica scuola musicale bolognese.

Avrò avuto circa sei o sette anni ed ero ancora digiuno di musica. Confesso che quei pomeriggi cui mi accompagnava la nonna, mi annoiavano mortalmente.

Giovinette abbigliate con monacali grembiuli neri, simili a quelli delle scuole elementari, si cimentavano in esecuzioni pianistiche o violinistiche che mi lasciavano del tutto indifferente.

Mi divertivano invece gli incidenti che talvolta colorivano quei noiosi pomeriggi.

Sbagli palesi di note, fragorose stonature, grattamenti di corde, suoni inquietanti e irriguardosi di strumenti a fiato, deragliamenti tecnici, fermate, crisi di memoria o pianto, impossibilità emotiva di riprendere, irritazione palese dei professori, le cui facce feroci facevano capolino dalla porticina dalla quale si saliva sul palco, rallegravano e variavano il clima sonnolento di quelle manifestazioni.

Avevo poi notato che proprio sopra la suddetta porta si trovava il busto di un antico prelato, ritratto con una curiosa smorfia al viso, quasi a testimoniare la cattiva qualità degli esecutori o delle musiche. Rimosso una quarantina d’anni fa a causa della discutibile ristrutturazione della sala Bossi, ha trovato triste sede, voltato contro un muro, in un androne adibito a deposito di spazzatura e parcheggio.

Seduto in prima fila e circondato da una corte d’insegnanti, spiccava la chioma bianca del direttore, allora il maestro Ettore Desderi. Mi risulta lanciasse occhiate di fuoco ai malcapitati studenti, borbottando anche sorde minacce, nei casi più gravi. Tale personaggio incuteva rispetto ed era temutissimo da tutti. Il direttore del Conservatorio era in quegli anni scelto dal Ministro della Pubblica Istruzione fra le personalità di spicco del mondo musicale (generalmente celebri compositori o direttori d’orchestra). Era una figura canonizzata e riverita: bastava apparisse, uscendo dal suo studio, perché i corridoi del Conservatorio si svuotassero immediatamente da allievi e professori piombando in un silenzio monastico.

Altra cosa erano i concerti o, più spesso, i saggi scolastici che si tenevano presso la “Sala Mozart” dell’Accademia Filarmonica, con sede in un antico palazzo di Via Guerrazzi. Tale spazio era sovente affittato per manifestazioni di varie associazioni e per le esibizioni di fine anno di allievi d’alcune scuole private di pianoforte ed anche in quelle occasioni la noia era vinta dagli aspetti umoristici o paradossali di quei pomeriggi.

La sala, infatti, era sempre gremita di parenti ed amici che indulgentemente applaudivano alle esecuzioni, anche quando era ben difficile, fra stonature, note sbagliate o fermate, riconoscere la celebre composizione eseguita.

Ricordo poi di essere stato redarguito per aver affermato come un’attempata signorina, insegnante privata di pianoforte, somigliasse moltissimo per mole e volto ad un eunuco guardiano dell’harem di un pascià da me notato fra le illustrazioni di un libro di Salgari.

Sedeva costei a lato dell’allievo per voltargli le pagine ed irrorargli in abbondanza le mani di talco con un appariscente piumino da cipria. Sollevava così fitte nuvole bianche tali da far starnutire gli spettatori delle prime file.

Pochi anni dopo studiando anch’io il pianoforte ho provato a spargere del talco sulle mani e sulla tastiera. Il risultato è stato disastroso: i tasti, diventati sdrucciolevoli, facevano scivolare le dita e sembrava di percorrere una pista da pattinaggio invece che una tastiera. Mi spiegai allora la frequenza degli sbagli dei malcapitati.

Altra cosa erano le stagioni di concerti che si tenevano al Teatro Comunale, con celebri direttori d’orchestra e solisti ed alla Sala Bossi del Conservatorio, quest’ultima sede delle manifestazioni della rinomata “Società del Quartetto”, in quegli anni molto attiva. Ho provato allora le mie prime grandi emozioni avendo avuto la possibilità di ascoltare pianisti come Cortot, Backaus ed il giovane Michelangeli.

Devo candidamente ammettere tuttavia, che, salvo rare eccezioni, ai concerti mi sono molto spesso annoiato mortalmente. Ho vissuto questo stato d’animo come una colpa fino a quando il compositore Luigi Dallapiccola, una volta, mi confessò la stessa cosa, ovvero di essere un pessimo ascoltatore. 

Sono passato poi fra gli allievi del Conservatorio, pertanto dall’altra parte della barricata. Questo avvenne grazie al sostegno, ai consigli ed all’aiuto del maestro bolognese Alfredo Gorzanelli, valente musicista, compositore e direttore d’orchestra. Era in quegli anni direttore stabile dell’orchestra del Teatro Comunale (fatto più unico che raro in una città normalmente indifferente, quando non apertamente ostile nei confronti  di suoi concittadini artisti).

In compagnia così d’alcuni miei compagni studenti, come me alla ricerca più di diversivi o di ragazze, scoprimmo un mondo musicale parallelo a quello ufficiale, spesso curioso e divertente.

Ogni tanto si riuniva un’orchestra, sotto il patrocinio di un antico sodalizio cittadino, formata da ottimi  dilettanti ma anche rovinata da taluni elementi tanto disastrosamente pessimi esecutori, quanto smaniosi di esibirsi. Dirigeva questa mal assortita compagnia un musicista dilettante, abile e stimato dirigente di un grande ente. Costui, a sue spese, organizzava un paio di volte l’anno concerti dall’esito inquietante.

Il direttore d’orchestra in questione era afflitto da notevole miopia, tale da impedirgli di riconoscere le persone che lo salutavano per strada, nonostante portasse occhiali con lenti dallo spessore di un fondo di bottiglia ed inoltre, a causa dell’età non più giovane, aveva anche problemi d’udito.

Questi concerti erano molto attesi dagli studenti del Conservatorio perché l’organizzatore, avendo bisogno di completare l’organico dell’orchestra soprattutto per gli strumenti a fiato, chiamava alcuni miei compagni di studi come aggiunti riconoscendogli un piccolo compenso. Al loro seguito avevo così la possibilità d’assistere alle prove, generalmente pochissime, ed all’esecuzione.

Il repertorio spaziava dai classici, all’operetta ed ad improbabili composizioni di dilettanti amici del direttore. I risultati erano tanto curiosi quanto inimmaginabili.

Una volta, in un concerto tenuto in una chiesa cittadina, il direttore nel fare l’inchino di rito al pubblico,  urtò il suo leggio facendolo cadere rovinosamente con tutta la musica. Non accortosi di nulla e non trovando più né leggio né musica, cominciò a borbottare ad alta voce in bolognese – Ragazzol, non fate scherzi, duv’el la musica, che l’avevo messa qui sul leggio. Poche storie, an fasì mega i furb.  Av’ dag delle noci in testa se non vien fuori subito! –

A nulla valevano i cenni degli orchestrali che cercavano di rialzare il leggio e fargli capire la natura dell’incidente.

Continuò – Delinquent, asasein, se trov chi m’a fat sto scherz, a sag me quel ch’ai faz.-

Finalmente, rialzato il leggio, chiarito il malinteso e calmato il direttore, iniziò il concerto.

Il primo brano cominciò malissimo: doveva trattarsi di Mozart o Haydn. Dopo pochi istanti non si riusciva a capire più nulla, fra dissonanze, disarmonie e palesi errori ritmici. Il direttore continuò per un po’ chinato a novanta gradi per poter leggere la musica, mentre gli orchestrali iniziarono a litigare fra loro. -  Siete fuori - dicevano i primi violini ai secondi - No! Siete fuori voi – ribattevano questi ultimi.

Le viole (due) discutevano vivacemente, sempre continuando a suonare, su quali arcate e diteggiature applicare. I violoncelli (quattro) borbottando insieme all’unico contrabbasso continuavano imperterriti con altro ritmo, pur affermando ad alta voce di non ritrovarsi. I fiati stonavano disperatamente emettendo pernacchie e suoni impossibili. Il direttore cominciò a gridare – Cus’el ste casein! Oh cinni, brisa scherz, che stavolta a faz sul serio, av aspet fora! -

Il pubblico sconcertato invitò l’orchestra al silenzio ed a smettere di litigare. Finalmente si fermarono e si risolse l’arcano: erano state cambiate dal direttore le parti sui leggii. Aveva, infatti, la pessima abitudine di modificare il programma all’ultimo momento senza avvertire e, vedendoci pochissimo, aveva mischiato i materiali, aggiungendone anche di nuovi.

Gli orchestrali, di conseguenza, convinti di eseguire lo stesso brano, suonavano invece contemporaneamente pezzi diversi. Riordinata la musica, anche con l’aiuto del pubblico, il concerto riprese.

Per il finale d’ogni brano, il direttore gridava  – Forte, più forte! Spachè al cordi, ragazzol, che pago io! - Non posso descrivere l’ilarità e lo spasso degli spettatori. Confesso che ancora oggi, a molti decenni di distanza, rimpiango quei pomeriggi, poiché oltre al divertimento, vi si constatava la passione e l’impegno di tanti dilettanti che sacrificavano serate e tempo libero pur di fare musica insieme.

Altra cosa erano i concerti di musica sacra, cui con altro nome partecipava la stessa compagine orchestrale e che si tenevano in una nota chiesa cittadina. In questi casi si alternavano serate importanti, con ottimi risultati, a serate sulle quali è meglio stendere un pietoso velo d’oblio.

Vi erano a Bologna anche parecchi cantanti lirici dilettanti molti dei quali professionisti affermati in vari settori pubblici o privati. Costoro, una volta l’anno, noleggiavano una sala cittadina, talvolta addirittura la Sala Bossi del Conservatorio, per dare sfogo alla loro passione. Scritturavano poi un professore del Conservatorio, grande accompagnatore di cantanti e maestro collaboratore al Teatro Comunale (sembra un paradosso ma a questo formidabile professionista dava fastidio la voce dei cantanti e li ha sempre accompagnati al pianoforte con del cotone infilato nelle orecchie).

Il concerto era ad inviti, ma l’occasione era troppo ghiotta per noi studenti per lasciarsela sfuggire. Corrompendo la custode addetta ai controlli, c’intrufolammo, nascondendoci nelle ultime file.

Fu una serata memorabile: l’organizzatore, noto professionista bolognese con la mania di esibirsi come tenore, aveva raccolto intorno a se alcuni fra i suoi colleghi più pittoreschi. Spiccava fra questi R. S. docente di matematica in un liceo cittadino e tanto brutta quanto notoriamente pestifera. Costei si  vantava di possedere un’importante voce di mezzo soprano. Ovviamente la Sala Bossi era gremita di amici del professionista, che non volevano perdersi lo spasso, e di allievi della professoressa, da lei quasi obbligati a partecipare.

Presentava la serata un farmacista famoso per la mania di fare l’animatore ed il presentatore di serate “culturali” nei migliori circoli privati cittadini. Era anche celebre per i proverbiali e divertenti strafalcioni. Alla sortita del primo cantante, il professionista organizzatore e tenore, il pianista, già seduto al suo posto, s’infilò con gesti plateali del cotone nelle orecchie. A quel punto si sentì un commento ad alta voce, in bolognese, da parte di un anonimo spettatore – Tacagna ben! – Fu annunciata poi la romanza “Una furtiva lacrima” da L’Elisir d’Amore di Donizetti. Il farmacista presentatore si lanciò in uno sproloquio sull’opera, confondendone però la trama con quella del Don Pasquale e di Bohème di Puccini. Beccato dal pubblico, rispose – Si tott’ d’ignurent - andandosene indignato. Il pianista suonò l’introduzione ma quando il cantante fece per aprire bocca fu bersagliato da schizzi provenienti da una pistola ad acqua in mano ad uno spettatore della prima fila. – T’ci ste te! A to vest, Carlino, fasem poi i conti dopo….- disse il tenore, mentre il disturbatore replicò – A t’ò dè dl’acqua per aiutarti a far venire le lacrime – Il pianista ricominciò ed il povero tenore finalmente cantaò. Aveva una voce che ricordava sia l’ululato del lupo, sia il belato di una pecora; in certi momenti poi diventava tremula ed acuta come quella di certe vecchie suore salmodianti ai vespri. Nel momento culminante, mentre si avvicinava faticosamente all’acuto, fu interrotto dal fortissimo squillo di una vecchia sveglia, che fece sobbalzare tutti sulle sedie. Uno del pubblico aggiunse - Benessom così che ci svegliamo da questa lagna! – L’ignoto che, a tradimento, aveva fatto suonare la sveglia, pensò bene di ripetere il trillo suscitando l’ilarità generale. Il tenore, come nulla fosse successo, riattaccò l’acuto e si produsse in una “stecca “ favolosa.

Scrosci d’applausi, mentre quest’ultimo, ringraziando, diceva a voce alta, indicando un punto della platea – T’aspett fora, caragna d’un delinquent, che non rispetti gnenca la vera arte. – Ritornato il farmacista, annunciò un giovane baritono, sicura promessa dell’arte. Il padre, infatti, convinto d’avere in casa un genio del canto, tormentava amici e conoscenti facendolo esibire ovunque, anche in situazioni penose. Comparve sul palco un ragazzone dall’aria stordita e spaesata con uno strano sorriso fisso sul volto.  Cominciò a cantare  una celebre romanza da Andrea Chenier di Giordano. – T’è mal a la penza – fu il primo commento dell’impietoso pubblico. In effetti, fra muggiti, borborigmi e suoni strani, sembrava più il lamento di un malato che l’esibizione di un cantante. Apriti cielo! Il padre, un uomo grande e grosso con evidenti problemi obesità, si alzò dalla sedia in prima fila e cominciò a minacciare il pubblico, alzando i pugni.  Il viso gli diventò cianotico, la voce gli si strozzò in gola, mentre il figlio imperterrito continuava a cantare. Infine stramazzò quasi svenuto sulla sedia. Solo allora il sedicente baritono si rese conto dell’accaduto ed interrompendo la romanza disse - Papà, scusa, quest’aria è un po’bassina per me! – A questo punto l’ilarità del pubblico non potè più essere trattenuta, anche perché B. M., il pianista, aveva continuato imperterrito a suonare senza accorgersi di nulla, forse a causa dei tappi nelle orecchie. Calmatasi la situazione, apparve finalmente, annunciata come regina della serata, la mezzo soprano R. S. Era vestita con un abito di paillettes blu, più da rivista che da concerto, guarnito con una vistosa rosa rossa posta in mezzo alla generosa scollatura. Occorre a questo punto ricordare che la professoressa aveva già da tempo superato la mezza età e, nonostante l’improbabile chioma ricciolina color nerofumo unita ad un pesante trucco teatrale, dimostrava una vecchiezza decrepita. I suoi alunni, che riempivano una buona metà della Sala Bossi, all’apparire della loro terribile insegnante scoppiarono  in un’ovazione da stadio ed urla da tifoseria. La “signorina” mezzo soprano, come tenne a sottolineare al farmacista presentatore, avrebbe eseguito la celebre “Seguidilla” da Carmen di Bizet.  Al mio fianco sedeva uno studente della professoressa che era fra i più esagitati e gridava – Bella, bellissima, sei un fiore della Sicilia (era effettivamente d’origine siciliana), alla Scala devi andare, alla Scala devi cantare Carmen! – Al mio sguardo interrogativo, non capendo se diceva sul serio e di conseguenza fosse impazzito, oppure la deridesse, rischiando gravi rappresaglie a scuola, rispose – An so mega matt, ma magari se la prendesse la Scala, ma anche quella di cantina. Se c’inciampasse, ce la toglieremmo di torno, fetente e cattiva com’è. Solo a farle sentire che le dici “ Bella, bellissima, sei un fiore di Sicilia” ci guadagni anche mezzo voto e per un po’ schivi le sue cattiverie. Per fortuna che due volte l’anno, grazie a quell’imbezel del dottor S. che organizza queste ridicole serate, riusciamo a rabbonirla. Le diciamo che verremo in massa ad appaludirla ed ad ammirare la sua bellezza. Pensa che qualche anno fa, agli esami di maturità, è riuscita a far rimandare un suo alunno che adesso studia ingegneria con ottimo profitto, solo perché lo aveva colto mentre affermava che non sarebbe andato ad un suo concerto. Capito che razza di carogna. –

Finito il brano che cantò con voce impossibile, il mio vicino si alzò in piedi ed applaudendo entusiasticamente, gridò con foga – Bella, bellissima, alla Scala, alla Scala, giù per la scala (certo di non essere sentito per il chiasso da stadio), la Scala…. –

La soprano che seguì era una cicciona enorme, abbastanza giovane, molto mora e con una evidente peluria sopra il labbro superiore. Presentata anche lei dal farmacista come gran promessa del canto, provocò il solito anonimo commento – Donna baffuta, sempre piaciuta. Però me a la lass a vuieter! – La cantante replicò all’ignoto motteggiatore - Ignorante! Cafone, ma dove sono venuta, la mia arte merita di meglio. – Scoppiò un mezzo tumulto e finalmente fu annunciato che avrebbe cantato “Caro nome” da Rigoletto di Verdi.

Aveva una voce caprina, stridente e tremula. Contorceva poi il volto e le labbra con tali smorfie che uno spettatore commentò – Bein mo da bon, sta attenta che così ti cadono i baffi. –

Lei rispose, interrompendo la romanza – Ignorante! – poi continuò, come nulla fosse.

Alla fine della serata una vera folla si radunò nel corridoio laterale per complimentarsi con gli artisti, specialmente con la professoressa del liceo. Tutti i suoi allievi, infatti, facevano a gara per rallegrarsi e chiederle autografi ma soprattutto per farle vedere che erano presenti ed evitare rappresaglie.

 

La vita del Conservatorio, durante l’anno, si svolgeva tranquillamente ed in modo abbastanza sonnacchioso. In quel periodo, la seconda metà degli anni “60”, gli studenti erano poco più di un centinaio. Numeri ben diversi riferiti ad oggi o anche solo a quelli del decennio successivo. Ci conoscevamo tutti, ma la popolazione femminile era piuttosto scarsa e poco appetibile.

Sedevamo spesso in corridoio su antiche panche quando eravamo liberi da lezioni o studio. Così vedevamo passare le ragazze, osservandole con interesse e commentando ad alta voce. Le più carine erano un’arpista ed un’organista, tanto socievole la prima quanto altezzosa e scostante la seconda. Le altre erano improponibili anche a causa dell’antiquata moda del tempo. Non erano ancora tempi di minigonna che peraltro alla sua timida comparsa fu violentemente osteggiata e proibita dai severi insegnanti.

Il Conservatorio, per noi studenti, rappresentava non solo una scuola, ma una specie di ritrovo nel quale ci si incontrava anche d’estate ed al di fuori degli orari di lezione.

C’era sempre qualche compagno con cui scambiare una parola o far progetti per il futuro.

Quando si saliva lo scalone barocco a volte si sentivano urli ed anche insulti come - Cretina, somara, vai fare la pantalonaia… - voleva dire che la professoressa di …. stava facendo lezione e che tutto filava nella normalità. Era questa un’anziana musicista, piccola di statura, zitella da sempre e per vocazione, tanto brava quanto collerica. Controllava le sue allieve come giovani novizie di un convento di clausura di cui si considerava la madre superiora. Guai a loro se avessero osato presentarsi a lezione truccate o vestite in modo men che monacale. Le più grandi poi dovevano sottoporre al suo insindacabile giudizio, morosi, filarini o fidanzati, pena scenate e minacciose telefonate alle famiglie. Se qualche allieva poi convolava a nozze, era di prammatica che fosse testimone per la sposa. Le allieve rappresentavano per lei forse quella famiglia che non aveva avuto. Superato però l’ostacolo del suo cattivo carattere, era straordinariamente generosa e buona come più volte ho avuto modo di verificare.

Alla sua scuola, inoltre, si sono formate ottime strumentiste che ancora si fanno onore nelle orchestre e  nei Conservatori italiani.

Rari eventi turbavano questo clima tranquillo. Uno fu quello di P. allora allievo della scuola media annessa al Conservatorio. L’avevano forzatamente iscritto al corso di fagotto, essendo musicalmente molto dotato, ma ancora non convinto a quale strumento dedicarsi. Aveva chiaramente detto all’esame d’ammissione che il fagotto non gli piaceva. Il direttore l’aveva iscritto d’ufficio non tenendo in alcun conto il suo parere. La ragione era che, essendoci un solo studente in quel corso ed all’ultimo anno di studio, il professore rischiava di rimanere senza allievi. Insegnava questo strumento un anziano docente, ottimo musicista, ma lontano come mentalità dalle esigenze di un ragazzino.

P. cominciò a frequentare. Lo vedevamo arrivare, salire lo scalone di malavoglia tirandosi dietro a fatica la valigetta che conteneva lo strumento. Quest’ultimo era di proprietà del Conservatorio ed era prestato agli allievi, soprattutto nei primi anni, per evitare alle famiglie spese anche ingenti nell’incertezza di un proseguimento degli studi musicali.

Per colmo di fortuna, o sfortuna, secondo i punti di vista, essendo gli allievi di fagotto solo due, di cui uno diplomando, P. aveva a disposizione l’insegnante quasi solo per lui.

In corridoio, quando riusciva a sgattaiolare fuori dell’aula, continuava a ripeterci che detestava il fagotto e che avrebbe voluto studiare la batteria. Allora purtroppo non c’era il corso di strumenti a percussione, introdotto qualche anno dopo. Di conseguenza cercavamo di convincerlo a portare pazienza e rassegnarsi. Un giorno, però, P. esasperato, approfittando di un momento d’assenza del professore,  prese il fagotto e lo buttò giù dalla finestra.

Quando l’insegnante rientrò in aula, non vedendo più lo strumento, gli chiese – Dov’è finito il fagotto? – P., con aria serafica, rispose – Ha preso il volo! –

- Come ha preso il volo. Dove l’hai messo ? – 

- Ha preso il volo – ribattè P..

Il professore si accorse in quel momento che la finestra non era ben chiusa. Colto da un presentimento, si affacciò e vide il fagotto ridotto in mille pezzi, nel cortile sottostante.

Costernato, non seppe far altro che portare P. dal direttore. Quest’ultimo, non sapendo se arrabbiarsi o ridere, gli diede tuttavia una sonora lavata di capo minacciando sospensioni e altro. Poi, però, lo spostò ad un corso di pianoforte dicendogli – Questo strumento, almeno, non riuscirai a buttarlo giù dalla finestra.

P. potè poi finalmente coronare i suoi sogni, qualche anno dopo, diventando un ottimo percussionista.

Poco tempo fa ricordava ancora quell’episodio, come uno dei momenti più importanti della sua vita.

Il periodo dei saggi scolastici, generalmente in primavera, era atteso da tutti con impazienza. Per qualcuno rappresentava l’occasione di esibirsi, se pur con grandi patemi d’animo, per altri invece era il momento di divertirsi alle spalle dei compagni.

Una delle cose preferite che facevamo era questa: ci mettevamo in tre o quattro nella prima fila della sala Bossi, a patto che non fosse presente il direttore, e cominciavamo a far smorfie, sorrisetti e commenti quando il malcapitato esecutore faceva qualche errore o incappava in un’imprecisione. Ovviamente c’erano alcuni bersagli preferiti, scelti fra i compagni più studiosi o timidi. I risultati erano divertentissimi: ad ogni smorfia il poveretto, che ci vedeva con la coda dell’occhio, cominciava a sbagliare sempre di più aumentando così i nostri cenni di deplorazione. Era un’abitudine tollerata anche da alcuni insegnanti, che alle rimostranze dei malcapitati replicavano – Ti devi abituare, se vuoi fare questa professione. Non sempre il pubblico applaude. Può capitare anche di peggio. Che fai se in prima fila c’è qualcuno che parla o commenta e poi si addormenta, magari russando? –

C’era, infatti, un frequentatore abituale di concerti e saggi finali, che dopo pochi minuti si addormentava a bocca aperta, qualche volta russando platealmente. Era un personaggio curioso, alto, allampanato e con un’aria ascetica; si mormorava avesse quattro o cinque lauree. Lo si poteva vedere tutti i giorni seduto ad un tavolino di un caffè vicino al Teatro Comunale, sempre circondato da studenti cui dava consigli sui loro studi universitari. Era presente a tutti i concerti, purchè gratuiti. Dopo essersi seduto nelle prime file immancabilmente cedeva al sonno alle prime note dell’esecutore, russando sonoramente. Redarguito dai vicini, faceva un gran sorriso ed immediatamente ripiombava in catalessi. Evidentemente le esecuzioni musicali, soprattutto di pianisti ed in genere di musica da camera, lo rilassavano tanto da addormentarlo. Al termine d’ogni brano si svegliava e partecipava convinto agli applausi.

Studiava allora al Conservatorio un giovanissimo pianista che sembrava una sicura promessa del concertismo. Aveva circa dodici anni e la sua insegnante propose al direttore di fargli eseguire un concerto di Mozart con l’orchestra. Considerato il suo talento, fu deciso che si sarebbe esibito in un concerto pubblico accompagnato dall’orchestra del Conservatorio diretta dal M° G.

L’orchestra era formata dai professori di strumento, come prime parti, con a fianco gli allievi migliori ed integrata da elementi del Teatro Comunale. Si trattava di un evento eccezionale e per noi si presentava l’occasione di poter seguire le prove.

Il M° G., all’ora stabilita, era pronto sul podio, il giovanissimo pianista seduto allo strumento con vicino l’insegnante, ma mancava metà orchestra. I professori e gli allievi del Conservatorio erano in ritardo. I professionisti esterni giustamente iniziarono a protestare in quanto l’orario era stato concordato per conciliarlo con i loro impegni nell’orchestra del Teatro Comunale. Finalmente i professori, seguiti dai loro allievi, arrivarono borbottando varie scuse. Il M° G. chiese all’orchestra di accordarsi. Il pianista, intimorito, diede il “la” ma nessuno vi fece caso. Il direttore sollevò la bacchetta per dare l’attacco dell’introduzione ed il risultato fu disastroso. Una cacofonia totale. Immediatamente si fermò dicendo – Ma come, non vi siete accordati? –

Era successo che i professori, soprattutto di strumenti a fiato, avevano imposto ai loro allievi seduti a fianco di non prendere l’intonazione dal pianoforte e da nessun altro. Cominciarono così ad insultarsi fra colleghi.  – Sei sempre stato stonato - diceva il professore di c. rivolto al collega di o.

Quest’ultimo replicava – Ma stai zitto! Lo sanno tutti che sei sordo! – Poi al suo allievo – Non accordarti con lui che quando suonavamo in orchestra lo chiamavano “mister scrocco”. Il direttore cercava di calmare gli animi ma il primo cl., docente anch’esso, si alzò dicendo – Con questi somari io non suono. Quando Toscanini mi diceva... – Ma sta zitto che suonavi in una banda e nelle balere, altrochè Toscanini – ribattè un collega. Nel tumulto generale l’insegnante del pianista si alzò e gridò – Vergogna! Bell’esempio per i vostri studenti! Basta, fate silenzio e cominciamo seriamente. –

Tutti, direttore d’orchestra compreso, ammutolirono, infatti, L. P. oltre ad essere una concertista di fama, era nota per il carattere deciso ed era temuta per le sue battute fulminanti. Sarà per il fatto di essere redarguiti da una donna, oppure per un ritorno d’amor proprio, finalmente si accordarono e la prova cominciò.

Ero presente in sala e ricordo l’episodio con divertimento, perché passano gli anni ma le rivalità e le invidie fra colleghi esistono ancora, quasi tramandate come una cattiva tradizione, da trasmettere fra docenti ed allievi.

Pochi anni dopo ho saltato un’altra barricata, passando fra i professori, poi un’altra, diventando direttore di un Conservatorio.

Bologna musicale così come la ricordo non esiste più.

Sono cambiati i tempi. Può darsi che ci sia ancora ma non so dove si trovi.